L’autore di questo testo rinuncia volontariamente ai diritti d’autore donando la propria opera al pubblico dominio come azione anti-copyright contro la proprietà intellettuale.
È troppo tempo ormai che sento indegnamente associare la parola o il concetto di anarchia al fenomeno dell’Open Source, l’Open Content , Copyleft o al cosiddetto permesso d’autore. Ciò deve essere avvenuto probabilmente in seguito alla pubblicazione in rete dell’articolo di Eben Moglen Il Trionfo dell’Anarchia: il Software Libero e la Morte del Diritto d’Autore apparso per la prima volta in First Monday, peer-reviewed journal on the internet vol. 4, n. 8 il 2-agosto-1999 (titolo originale: Anarchism Triumphant: Free Software and the Death of Copyright http://emoglen.law.columbia.edu/… e tradotto da Francesco Paparella
(l’articolo si può consultare in italiano al link http://ftp.unina.it/pub/…).
Devo ammettere che, tutto sommato, il pezzo è stato scritto egregiamente, come tra l’altro si conviene ad ogni buon giurista o avvocato che si rispetti (e Eben Moglen è uno di questi), purtroppo il trionfo anarchico preannunciato dal titolo non si vede per niente. Semmai è proprio il contrario: una strenua difesa della proprietà intellettuale che ormai costretta a rinunciare al monopolio del full-copyright ha bisogno di darsi una veste nuova, più moderna e tollerante, al passo con la new economy. L’articolo esordisce con una analisi alquanto approfondita e veritiera sulla contraddittorietà e inapplicabilità del copyright per i prodotti informatici, chiarendo che la validità legale del copyright sulle opere informatiche, essendo esse non altro se non una comune sequenza numerica, si fonda su fumosi cavilli legali ed in caso di controversia è a totale discrezionalità dei giudici. Alla fine, l’articolo non si risolve nella preannunciata morte del diritto d’autore, bensì in una idea di liberismo all’americana semplicemente avendo spostato il meccanismo economico-commerciale dal monopolio del copyright (all right riserved) ad una forma allargata di copyright, il copyleft, che manterrebbe tuttavia intatta la sua principale funzione commerciale ma con in più la pretesa di salvaguardare i principi di libertà (!?…)
Dice testualmente Eben Moglen:
«Quando si parla di software libero (free software), ci si riferisce alla libertà, non al prezzo. Le nostre Licenze (la GPL e la LGPL) sono progettate per assicurarsi che ciascuno abbia la libertà di distribuire copie del software libero (e farsi pagare per questo, se vuole), che ciascuno riceva il codice sorgente o che lo possa ottenere se lo desidera, che ciascuno possa modificare il programma o usarne delle parti in nuovi programmi liberi e che ciascuno sappia di potere fare queste cose.»
Quindi la libertà principale sarebbe quella di rendere accessibile dice Moglen gratuitamente ma anche in cambio di un compenso, il software libero agli utenti che lo vorranno e che a loro volta sono tenuti a rispettare tale condizione con eventuali altri interessati, per evitare che qualcuno possa espropriare il diritto alla libera divulgazione, apponendo il suo full-copyright su eventuali modifiche apportate al software.
In particolare aggiunge Moglen:
«Per proteggere i diritti dell’utente, abbiamo bisogno di creare delle restrizioni che vietino a chiunque di negare questi diritti o di chiedere di rinunciarvi. Queste restrizioni si traducono in certe responsabilità per chi distribuisce copie del software e per chi lo modifica. Per esempio, chi distribuisce copie di un programma coperto da GPL, sia gratis sia in cambio di un compenso, deve concedere ai destinatari tutti i diritti che ha ricevuto. Deve anche assicurarsi che i destinatari ricevano o possano ottenere il codice sorgente. E deve mostrar loro queste condizioni di licenza, in modo che essi conoscano i propri diritti. […] La GPL è differente dalle altre espressioni di questi valori in un aspetto cruciale, formalizzato nel paragrafo 2 della licenza: È lecito modificare la propria copia o copie del Programma, o parte di esso, creando perciò un’opera basata sul Programma, e copiare o distribuire tali modifiche o tale opera secondo i termini del precedente comma 1, a patto che siano soddisfatte tutte le condizioni che seguono:
[…] b) Bisogna fare in modo che ogni opera distribuita o pubblicata, che in parte o nella sua totalità derivi dal Programma o da parti di esso, sia concessa in licenza gratuita nella sua interezza ad ogni terza parte, secondo i termini di questa Licenza.»
Si capisce intanto che queste necessarie restrizioni che ci consentirebbero di raggiungere la libertà di poter accedere alle modifiche del lavoro svolto, sono strettamente legate al software libero, un prodotto commerciale legato al mondo dell’informatica in generale e che oggi ha molto mercato. Non è quindi un discorso che possiamo estendere a un concetto più ampio di prodotto culturale come potrebbe essere un libro o un’opera concettuale.
È più che altro riferito ad una applicazione e il poter accedere liberamente alle eventuali modifiche di un software non è per se stesso un atto meritorio o di libertà: possono esistere software (come i videogiochi) che esaltano anche principi illiberali ed il cui sviluppo potrebbe a qualcuno non interessare affatto. In ogni caso avere apportato delle modifiche ad un software non significa per questo averlo necessariamente migliorato: potrebbe voler dire anche il contrario. Tutto dipende dal tipo di software, dal contesto commerciale e dalle sue eventuali applicazioni. Inoltre anche da un punto di vista culturale potrebbe significare una restrizione, un condizionamento, perché si tende a modificare o migliorare una cosa che hanno impostato altri prima di me e di cui io sono solo un mero operatore.
Fortunatamente la “cultura” è una cosa più generale e non è confinata all’informatica, anzi…
Il più delle volte le idee, quando non trovano una diretta applicazione nel mondo delle reali opportunità, rimangono concetti mentali, sono il prodotto, per lo più di singoli individui e non sono necessariamente suscettibili di modifiche e/o miglioramenti. Per dirla in breve c’è una sorta di prodotto culturale che non risponde alla solita funzione commerciale alla quale siamo stati da sempre abituati dal sistema capitalistico secondo cui ogni cosa, per funzionare bene, deve essere condivisa e fruibile da più persone possibili, giusto perché bisogna salvaguardarne l’aspetto utilitaristico, commerciale. La cultura non è popolare o impopolare: la cultura è quanto di più ci sia e basta.
Ma a chiarire meglio le cose che dico è Lawrence Lessig, un altro giurista statunitense famoso per essere il padre della Creative Commons e che nella prefazione a pag. 11 del suo libro Cultura libera. Un equilibrio fra anarchia e controllo, contro l’estremismo della proprietà intellettuale, Apogeo, 2005, afferma senza mezzi termini:
«Analogamente alle posizioni di Stallmann sul software libero, la tesi a sostegno sulla cultura libera inciampa su un malinteso difficile da evitare e ancora più difficile da comprendere. Una cultura libera non è priva di proprietà; non è una cultura in cui gli artisti non vengono ricompensati. Una cultura senza proprietà, in cui i creatori non ricevono un compenso, è anarchia, non libertà. E io non intendo promuovere l’anarchia. Al contrario la cultura libera che difendo in questo libro è in equilibrio tra anarchia e controllo. La cultura libera, al pari del libero mercato, è colma di proprietà. Trabocca di norme sulla proprietà e di contratti che vengono applicati dallo Stato. Ma proprio come il libero mercato si corrompe se la proprietà diventa feudale, anche una cultura libera può essere danneggiata dall’estremismo nei diritti di proprietà che la definiscono. Questo è ciò che oggi temo per la nostra cultura. È per oppormi a tale estremismo che ho scritto questo libro.»
Ora, sorvolando sulle inevitabili obiezioni circa l’improbabile uso del termine corrente di anarchia in quanto disordine, che potrebbe aver fatto Lessig in questa sua dichiarazione, un qualunque anarchico (forse non anglossassone) come lo potrei essere io, comprende facilmente che una proprietà intellettuale, così come viene concepita da Lessig e così come tutelato dal diritto giuridico Statale, non può e non deve esistere. Mi spiego meglio. La cosiddetta cultura libera che professa Lessig e come lui tutti gli altri sostenitori del permesso d’autore, sarebbe quindi possibile, come sostiene egli stesso, solo in un contesto di tutela della proprietà, perché lo scopo ultimo non è tanto quello della divulgazione, ma è quello di salvaguardare il diritto economico esclusivo che ne deriva da esso, anche se apparentemente non sembrerebbe, visto il diritto di accesso gratuito che propugnerebbero.
Questi signori, quando parlano di cultura libera confondono due diversi ambiti, quello informatico della realtà virtuale, con quello della editoria della carta stampata, facendone un tutt’uno, quando di fatto sanno bene che una è in funzione dell’altra. È vero che combattendo il full-copyright si evita il monopolio di pochi proprio come è vero che i vari permessi d’autore fungono da volano per la carta stampata in quanto prodotto commerciale, e a garanzia di tutto ciò vi è la inviolabile legge sul copyright.
Un siffatto sistema di libera cultura è sostanzialmente finalizzato a rilanciare il solito mercato dell’editoria, che in alcuni casi, seppur rinnovato (editoria indipendente), continuerà ad applicare i principi di popolarità del testo imposti dalle leggi del mercato, non favorendo per nulla i non abbienti (per intenderci quelli che non possono accedere ai mezzi informatici) e non corrispondendo ai principi di libera cultura, libera anche dai meccanismi commerciali.
Moglen, Stalmann, Lessig e tutti gli altri, così come anche per lo Stato, in riferimento al diritto d’autore, considerano il concetto di proprietà di un’opera come inscindibile da quello di paternità. Queste due cose per loro sono la stessa cosa, solo perché, in questo modo, si potrà vantare il diritto economico all’utilizzazione dell’opera stessa, sia direttamente quando l’autore è in vita, che dopo la sua morte come “rendita”.
Ma la proprietà per fortuna è cosa diversa dalla paternità e questo ogni buon anarchico lo sa: la reale necessità di abitare in una casa dignitosa, ad esempio, è cosa diversa dal sostenere che io ho il diritto di vendere tale casa o affittarla per ricavarne un utile, una rendita, così come cedere al pubblico dominio una propria opera frutto dell’ingegno, rinunciando ai diritti d’autore, non significa aver rinunciato alla paternità dell’opera, giacché comparirà sempre il mio nome su quest’opera, e non vuol dire neanche essermi spossessato di qualcosa che poteva appartenermi in maniera esclusiva, ma significa semplicemente aver condiviso con gli altri l’utilizzazione e gli eventuali benefici dell’opera rinunciando a ogni eventuale ricavo economico proprio per averne conservata la paternità, ma rifiutata la proprietà intellettuale. Quello che avviene poi in futuro delle opere derivate ed eventuali traduzioni a full-copyright non ci riguarda personalmente. In pratica relativamente alla proprietà intellettuale la domanda da porsi da anarchici è quanto sia lecito ai fini di una libera cultura continuare a vincolare in qualche modo la divulgazione delle (proprie) idee ad un costo, un prezzo da pagare, qualunque esso sia. La mia risposta è: per nulla!
A mio avviso la proprietà intellettuale e il mestiere di intellettuale devono essere banditi dagli anarchici: non generano affatto una libera cultura e la prova evidente di quello che sostengo è sotto gli occhi di tutti.
p.s.: il 26/10/2009 avevo invitato con una e-mail circolare diverse organizzazioni anarchiche ad aprire un dibattito sulla mia proposta di PUBBLICO DOMINIO ANARCHICO (Antiscadenza) ed in particolare a: [undisclosed recipients]
Ho ricevuto solo la risposta da Pino Bertelli che ho il piacere di pubblicare e che approfitto per ringraziare:
«Carissimi/o di Altipiani Azionanti… non so quale sia la posizione degli anarchici rispetto alle licenze di pubblicazione delle opere d’ingegno… e nemmeno mi interessa… ciascuno è principe di sé e della propria mediocrità o bellezza… per quanto mi riguarda posso dire quale è la mia visione dei diritti d’autore… ogni mio lavoro può essere rubato, dètournato, plagiato.. senza l’obbligo di citare la fonte… tuttavia sarebbe una cosa graziosa da parte del malfattore che si appropria della cosa scippata, ricordare da qualche parte l’origine del saccheggio… un abbraccio fraterno, Pino Bertelli.»
Peccato però che ai propositi non corrispondono i fatti e sul suo sito compare il simbolo © Copyright 2004-2009 (come per dire in fondo siamo uomini!). A tutti gli altri la questione sembra non sfiorarli nemmeno, pur sfornando di continuo testi, recensioni e opere varie. Per me è un triste risultato…