Dibattito su anarchici e lotte sociali

Sul numero 1 di "Machete", aperiodico anarchico che trovate nella nostra distribuzione, è comparso un articolo dal titolo "Individui o cittadini?" che ha dato vita ad un dibattito interno al movimento anarchico e libertario, dibattito che sarebbe utile riprodurre anche a Benevento ed in Campania in generale, vista l’incapacità o la capacità parziale degli anarchici locali a partecipare e ad inserirsi all’interno delle lotte in attuale svolgimento in difesa del territorio e della salute.

Di seguito trovate la risposta all’articolo, e la "risposta alla risposta".

Risposta a Machete

"Volete entrare in un’associazione operaia? Maledizione! Non giova per il verbo anarchico: ogni buon anarchico se ne deve star lontano come dalla peste. Volete fondare un’associazione dei lavoratori per abituarli a lottare solidariamente contro i padroni? Tradimento! Un buon anarchico non deve associarsi che con anarchici convinti, vale a dire deve star sempre con gli stessi compagni, e se vuole fondare associazioni, non può che dare nomi diversi a un gruppo, composto sempre dalla stessa gente. Cercate di organizzare e sostenere scioperi? Mistificazioni, palliativi!
Tentate manifestazioni ed agitazioni popolari? Pagliacciate!"

Errico Malatesta, "L’Articolo 248", 4 febbraio 1894

Nel primo numero di Machete è stato pubblicato un articolo – dal titolo Individui o cittadini? – che merita una risposta critica. Le questioni sollevate sono molto importanti e pensiamo che un dibattito in merito possa essere utile per i compagni. Le note che seguono vanno viste come un primo contributo in tal senso.
A fianco di diverse considerazioni puntuali e condivisibili sui rischi che alcune lotte attualmente in corso vengano recuperate dal cittadinismo – e che gli stessi anarchici in esse impegnati portino involontariamente acqua al mulino del riformismo –, vi sono, a nostro avviso, delle analisi e delle conclusioni errate.
Innanzitutto, sulle esigenze reali che spingono diversi compagni a partecipare ad alcune lotte con obiettivi parziali.
Quello della giovinezza che trascolora lasciandosi infiacchire e attirare dalle sirene del realismo è un argomento retorico e offensivo. Non è certo per evitare il rischio di scontri con la polizia oppure quello di dormire sotto le stelle che i compagni hanno partecipato alle battaglie valsusine contro il TAV. È vero esattamente il contrario. Non solo perché quello di affrontare le cariche degli sbirri e quello di dormire per diverse notti all’aperto sono stati, più che dei rischi, dei momenti concretamente vissuti, ma anche perché è proprio l’urgenza dell’avventura – di cui si nutre, come diceva Bakunin, lo stesso desiderio rivoluzionario – ad aver fatto sognare e contribuito a costruire le barricate valsusine. Avventura, sarà il caso di aggiungere, che non deriva tanto o soltanto dall’esposizione alle botte o al freddo, bensì dall’apertura all’ignoto. Fare le cose assieme a chi non è anarchico, battersi senza sapere in anticipo quali saranno i risultati, sperimentare idee e metodi in una lotta i cui tempi non li determiniamo solo noi, capire – fuori dai libri e dall’aria familiare delle iniziative che nascono e finiscono tra compagni – che avvedutezze ed errori hanno un loro peso specifico: tutto questo è avventura, cioè qualcosa di ben diverso dal dir la nostra sul mondo.
Per tanti anni non si è partecipato a simili esperienze, per quanto ci riguarda, semplicemente perché… non c’erano. Si può discutere, ovviamente, sul come intervenire in determinati contesti, ma fare maligne congetture sul perché non ci sembra accettabile. Starsene a casa, a dormire nei nostri comodi letti, aspettando di elaborare i nostri giudizi radicali post festum, sarebbe stato più facile, non più rischioso. Potremmo anche rispondere, proprio perché non siamo dei militanti che separano la gioia dalla lotta, che in Valsusa abbiamo passato alcuni dei giorni più belli della nostra vita. Ora, come accade spesso agli innamorati, può essere che nello slancio appassionato siamo stati poco critici, ma questo è un altro discorso. Per diversi giorni non abbiamo parlato pubblicamente e non abbiamo scritto volantini, semplicemente perché avevamo di meglio da fare: vivere un’occasione collettiva di liberazione individuale. Durante molte assemblee succesive, ai militanti che ci spiegavano dottamente che il problema non è il TAV ma il capitalismo, rispondevamo con la narrazione di momenti valsusini – e per diverso tempo, non solo a noi, è venuto spontaneo narrare invece di analizzare (per questo i fumetti di Asterix, per questo le lettere di Dolcino e Margherita).
Riteniamo tuttavia di non esserci bevuti il cervello. Abbiamo letto qualcosa anche noi sul cittadinismo e sappiamo quale imbroglio si nasconde dietro le cosiddette "alleanze tattiche". E qui veniamo all’analisi.
Far coincidere cittadinismo e Val Susa – come sembrano fare i compagni di Machete – è un errore di valutazione. Che il cittadinismo attraversi l’esperienza valsusina – come tutte le lotte popolari in questa fase storica – è sicuro; che siano la stessa cosa è un giudizio che riflette la lontananza fisica dalla lotta di chi lo emette.
Tutto ciò ci ricorda quello che diversi anarchici scrivevano a suo tempo sul tentativo, portato avanti da alcuni compagni, di occupare e distruggere in massa l’aeroporto di Comiso dove i padroni volevano costruire una base missilistica. Questi compagni cercavano di coinvolgere la base del PCI invitando il partito a partecipare alla lotta, ritenendo che la spinta insurrezionale avrebbe scavalcato ogni recupero istituzionale. Ebbene, tanti anarchici, di fronte ad un preciso progetto insurrezionale, ricordavano ai compagni siciliani cos’era lo stalinismo, cos’era costato il Fronte popolare in Spagna, ecc. Di fronte agli argomenti usati in quella lotta (speculazione edilizia, danno ambientale, controllo sociale, ecc.), diversi soloni spiegavano l’abc dell’antimilitarismo anarchico, la necessità di distruggere tutti gli eserciti, ecc. Per noi invece, con i suoi limiti e i suoi errori, quella rimane ancora una lotta su cui riflettere. Ma torniamo al tema.
La resistenza contro il TAV è stata a nostro avviso uno dei momenti più significativi del conflitto sociale in Italia da vent’anni a questa parte. Non solo perché ha segnato il ritorno delle barricate erette dalla "gente comune"; non solo perché ha avuto delle forti caratteristiche di autorganizzazione; non solo perché contiene in nuce una critica del progresso tecnologico (se ci riflettiamo bene è forse più "facile" essere contro la guerra che contro un treno: infatti per anni tanti militanti hanno sorriso di fronte a quei montanari che non sapevano apprezzare le magnifiche sorti e progressive, per il proletariato, dello sviluppo economico); ma soprattutto perché ha rimesso nell’aria una novella semplice e diretta: "È possibile". Una novella che ha saputo colpire il cuore e l’immaginazione di tante donne e tanti uomini che non hanno mai letto un testo rivoluzionario in vita loro.
E questo non solo per la liberazione dei terreni di Venaus (come correvano gli sbirri quel giorno!), ma anche per la nuova socialità creata dai presìdi. Che tutto ciò sia stato narrato da altri come crisi della rappresentanza, democrazia partecipativa, ecc., è indiscutibile. Che la distruzione dei cantieri di Venaus – la quale, ricordiamolo, non è sorta dal nulla – sia interamente neutralizzabile dalla nenia cittadinista è falso. Solo che per sottolineare alcune possibilità al posto di altre, bisogna esserci. I compagni non hanno inseguito le masse, è vero; ma nemmeno le masse "si sono unite ai sovversivi". È successo altro: un incontro, fatto di conoscenza diretta, di incomprensioni, di scazzi, di fiducia e di amore. Le occasioni insurrezionali sono altra cosa rispetto ad un progetto correttamente applicato: sono, nel senso più forte del termine, esperienze. E come tutte le esperienze fanno saltare molti dei nostri schemi mentali, facendoci travolgere da quella gratitudine che rende anche meno attenti e, forse, rigorosi. Ben venga quindi l’invito al rigore.
Quella valsusina è una "lotta popolare". Può piacere o meno, ma è così. "Popolare" non rinvia ad un soggetto – il popolo –, ma esprime una determinata qualità, una determinata composizione sociale. Non si tratta di farne l’apologia, ma di descriverla. L’aggettivo popolare contiene un’ambivalenza: si riferisce ad una nozione giuridico-politica (come nelle espressioni "sovranità popolare", "giudice popolare", ecc.) e insieme ad un’altra sociale, di classe (come nelle espressioni "quartiere popolare", "cucina popolare", ecc.). L’ambivalenza non è, tuttavia, solo nelle parole, ma nella cosa. In un’assemblea dopo l’8 dicembre 2005, un compagno, definendosi insurrezionalista per rispondere a chi diceva che gli insurrezionalisti erano un’invenzione mediatica, disse che la liberazione di Venaus fu un fatto insurrezionale. Un amministratore locale, riferendosi agli stessi avvenimenti, li definì, dopo aver ringraziato "i ragazzi dei centri sociali", una "lezione di civiltà"…
Ma la lotta in Valsusa è "popolare" anche in un altro senso: la sua composizione è interclassista. Il problema del TAV tocca, per farla breve, sia il farmacista che l’operaio. Si tratta quindi di individuare un "referente di classe", come lo chiamava qualcuno; ma non in modo astratto e sociologico, bensì nel corso stesso della lotta. (Il cittadinismo è anche un’ideologia tipica delle classi medie).
Non ci sembra che i compagni abbiano cominciato a parlare di "popolo" – lo hanno letto anche loro Stirner… –, ma di "lotte popolari", il che è ben diverso. Non era forse Bakunin a parlare della rivoluzione come di una "barbarie popolare" e del processo insurrezionale come di un "movimento anarchico delle popolazioni"?
Non si può appiattire un movimento su alcune espressioni scritte (sappiamo bene chi scrive, di solito, durante le lotte), pena una profonda incomprensione. Un paio di esempi. Il primo testo del Patto di mutuo soccorso – quello del luglio 2006 – era uscito da una ristretta riunione romana organizzata (anche) da alcuni esponenti nazionali di Rifondazione comunista. Quando se ne è riparlato a Venaus, quel testo è stato accantonato: molti avevano detto che non lo condividevano affatto pur apprezzando l’idea di una rete orizzontale di mutuo soccorso. Diverse cose sostenute dai compagni e non solo (come ad esempio l’importanza di non creare una struttura decisionale, ma solo un’occasione organizzativa) sono state poi inserite nel testo di presentazone del Patto. Il testo, come si capisce nel leggerlo, non è stato redatto da compagni, ma nemmeno – come suggeriscono i redattori di Machete – da scaltri politicanti abili nel cercare il gergo che mettesse tutti d’accordo, dai cittadinisti agli anarchici. È stato scritto da alcune persone cresciute nelle lotte valsusine, che per "partecipazione attiva dei cittadini", rifiuto della "delega in bianco" e diversa "politica" intendono un insieme confuso di aspirazioni e non un programma di controllo democratico delle istituzioni. Quel testo riflette l’ambivalenza di cui si parlava poc’anzi. I redattori di Machete ci crederanno se diciamo che in tutte le occasioni possibili abbiamo sostenuto a chiare lettere anche noi che non si tratta di risolvere la "crisi di rappresentanza", ma di acuirla.
Vale per le attuali lotte contro le nocività (lotte parziali, certo, ché la gente non ci risulta essere mai scesa in piazza per l’anarchia e per il comunismo…) ciò che Marx diceva a proposito dell’Internazionale, e cioè che il suo miglior contributo fu la sua mera esistenza storica.
Se gli anarchici del tempo avessero valutato – si magna licet – la Comune di Parigi unicamente attraverso i suoi proclami, l’avrebbero difesa così energicamente? Una Comune elogiata dai federalisti e da Bakunin, ma anche da Marx e poi da Lenin…
Che il terreno del conflitto valsusino non fosse mal scelto lo dimostrano tanti fatti successivi, ultimi nel tempo i blocchi e gli scontri in Campania (anche qui, quanti abitanti che dichiarano di essere semplici cittadini e non camorristi: cittadinismo!).
La lotta "No Dal Molin" è cosa ben diversa da quella valsusina, sia per la composizione sociale, sia per la presenza al suo interno di una forte cappa rappresentata dai Disobbedienti (deo gratia assenti in Valsusa). Ma anche qui non ci sembra corretto rinunciare alla nozione di recupero (se vogliamo preventivo), appiattendo sul riformismo quella che rimane un’importantissima possibilità: impedire la costruzione della più grande base militare USA d’Europa.
Facciamo notare di sfuggita che il testo dei comitati No Dal Molin citato nell’articolo proviene dal "coordinamento dei comitati" (organismo controllato dalla Cgil e dalla sinistra Ds), e che il "movimento vicentino" è più composito, con alcune realtà paesane effettivamente "popolari" (è una descrizione, non un’apologia…). Che la richiesta di una moratoria non vada affatto da sé, lo dimostrano poi sia il silenzio con cui i riformisti hanno risposto alle critiche pratiche dei compagni durante e dopo la manifestazione del 15 dicembre, sia il fatto che il consiglio di non farsi abbacinare da illusioni parlamentari arrivasse anche da diversi valsusini.
I redattori di Machete sembrano suggerire l’importanza di un intervento autonomo nei contenuti e nei metodi rispetto alla lotta di Vicenza. Giusto. Ma se non è possibile, a loro stesso dire, alcuna "svolta", a che pro intervenire? Resta forse l’ipotesi di un contributo contro la costruzione della base (obiettivo giusto, o no?), prescindendo completamente da una "lotta No Dal Molin" interamente cittadinista (compresi i blocchi stradali avvenuti altrove: cittadinisti radicali). Il problema esiste, non c’è dubbio. Siamo convinti che i compagni di Machete stiano riflettendo su questa possibilità e troveranno le adeguate risposte teoriche e pratiche.
Per finire alcune considerazioni più generali.
Nello stesso numero del giornale, i redattori difendono Bonnot e compagni dai tanti evangelisti di turno. Giusto. Gli "illegalisti" francesi, ci viene ricordato, oltre a far rapine avevano partecipato a scioperi e ad agitazioni operaie, proletari tra i proletari. Bene. Quello che ci chiediamo è se gli operai dell’epoca fossero tutti anarchici e radicali, oppure se non fossero imbrigliati nelle illusioni del riformismo e del sindacalismo (magari radicale). Perché quei compagni non sono stati a casa, allora, ad esercitare il loro sarcasmo? Cosa vorrà mai dire, per Machete, "lotta sociale"? "Vivere la vita a modo proprio"? Ma allora perché sostenere, qualche pagina dopo, che la ribellione individuale è il primo, necessario passo verso la rivoluzione sociale? (Noi preferiamo pensare, a dire il vero, la rivoluzione come l’occasione generalizzata della rivolta individuale, e non come il suo "superamento").
Certo, gli errori vanno evitati il più possibile (e l’uso dei pedigree accademici per pubblicizzare delle conferenze, ad esempio, è uno di questi). Ma tra gli errori che si possono commettere, non se ne deve contemplare anche uno particolarmente confortevole?
Infatti, per rovesciare il manifestino riprodotto in Machete sul cittadismo, si potrebbe dire: "Vuoi evitare ogni rischio di recupero democratico? Pensi che lo Stato e il capitale vadano distrutti subito? Non mescolarti con nessuno, anche se costruiscono una base militare a due passi da casa tua". Tanto per le barricate e le notti sotto le stelle basta… una penna.

alcuni anarchici

P.S.: sulla questione della democrazia diretta (alcuni compagni ne fanno l’apologia? Qual è il rapporto tra insurrezione, democrazia diretta e anarchia?), la prossima volta.


È significativo che, nella loro «Risposta a Machete», “alcuni anarchici” abbiano scelto come viatico le parole del più noto anarchico italiano sostenitore, oltre che dell’organizzazione formale, della necessità di stringere alleanze tattiche pur di arrivare all’agognata rivoluzione, scritte nel pieno della sua battaglia contro gli untorelli individualisti. Ancor più significativo è che di quel testo abbiano preferito ricordare solo il nome del periodico che lo ha ospitato, omettendone il titolo: «Andiamo fra il popolo».

La nostra impressione è che la vera spina dorsale della replica di “alcuni anarchici” sia costituita per l’appunto dal loro riferimento a Malatesta, a questo Malatesta — e da tutto ciò che si trascina dietro. Differenziandosi solo nella forma — dove non v’è traccia di flemma — il loro intervento ripete pari pari la secolare apologia dell’utilità pratica del buon senso con la conseguente riprovazione di chi, essendone privo, viene a rompere le uova nel paniere a chi si appresta a venderle alle masse. Infatti, così si legge nell’articolo in questione di Malatesta: «Ma quando si credeva di poter infine ricominciare un lavoro serio ed a larga base, ecco che venner fuori alcuni compagni i quali, per una malintesa intransigenza, elevarono l’isolamento a principio, e secondati dall’indolenza e della timidezza di tanti, che trovavano in quella “teoria” una comoda scusa per non far nulla e non correr nessun rischio, riuscirono a ricacciarci nell’impotenza».

Come si vede, non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Da oltre un secolo ci viene impartito che reale, concreta, pratica, è l’azione collettiva che sola può avere presa sullo stato delle cose. Per cui non bisogna dare ascolto agli ineffettuali sognatori che, amando starsene al calduccio delle proprie pervicaci convinzioni, impediscono agli operosi anarchici ragionanti di convincere il popolo a fare la rivoluzione. Da qui il viaggio in Val Susa trasformato in un obbligo sacro per i sovversivi come la visita alla Mecca per i musulmani, il cui mancato adempimento pare comporti un disonore di cui rispondere che squalifica in anticipo ogni parola pronunciata dal blasfemo che se ne macchia. Per inquinare il dibattito si cerca di buttarlo in rissa, aprendo la botola identitaria che sprigiona i suoi nauseanti miasmi.

Non è chiaro, mentre ci si tura il naso, se a brontolare tanto siano vecchi ammiratori di Errico Malatesta o giovani neofiti convertitisi sulla via di Venaus. Sebbene «l’indolenza e la timidezza di tanti» non spingano affatto oggi a disertare il fronte della popolare lotta, ma caso mai a prendervi parte senza chiedersi troppo quale sia il modo migliore per lasciarvi impresso il segno della propria singolarità, può darsi che essi non gradiscano comunque che si insinuino domande in questa epoca di risposte. O forse, chissà, può darsi che ci troviamo di fronte alle difficoltà che travagliano i periodi di transizione, quelli in cui si sta con un piede nel vecchio e uno nel nuovo cercando in tutti i modi di conciliarli, quelli in cui si tenta di trascinare con sé il maggior numero di antichi compagni per farsi forza, quelli in cui si fa leva sull’affetto per cementare i rapporti e mettere a tacere ogni eventuale spiacevole critica.

Bizzarro. A detta di “alcuni anarchici” l’articolo Individui o cittadini? ha perfino sollevato questioni «molto importanti» avviando un dibattito «utile per i compagni»; ha formulato «diverse considerazioni puntali e condivisibili sui rischi che alcune lotte attualmente in corso vengano recuperate dal cittadinismo — e che gli stessi anarchici in esse impegnati portino involontariamente acqua al mulino del riformismo»; e, al fine di scongiurare tali rischi, ha invitato ad un «rigore» dell’analisi ritenuto benvenuto. Ma se questo dibattito è meritevole di essere affrontato da tutti i compagni, che senso ha irrigidirsi con chi l’ha infine iniziato? “Alcuni anarchici” ci ricordano il vecchio Luigi Fabbri allorché, scagliandosi contro le solite mele marce che guastavano il movimento, cercava di curare le influenze borghesi sull’anarchismo: «E anche quando le loro idee o le loro critiche sono originariamente giuste, essi le esagerano e le sformano talmente da rendere a quelle il più cattivo servigio, quale peggiore non potrebbe il più dichiarato nemico».

È istruttivo osservare le capriole con cui si cerca di circoscrivere a priori una discussione allargata, asserendo per esempio che la critica a un’esperienza può essere effettuata solo da chi l’ha vissuta direttamente e collettivamente. Ci vengono in mente, si magna licet, quei vecchi compagni spagnoli che ancora si imbestialiscono ogni qualvolta qualcuno ha l’ardire di criticare l’ingresso degli anarchici nel governo durante la rivoluzione del 1936. Oppure quei filozapatisti europei che inorridiscono di fronte alle critiche rivolte all’EZNL e al suo mascherato subcomandante. Comodo criticare a cose fatte o a distanza, bisogna esserci! Per mettere un po’ d’ordine in questo casino di movimento dove ognuno ha la scostumanza di dire e fare quel che gli pare, è ora di formalizzare delle regole: a) d’ora in poi la partecipazione a blocchi, presidi, assemblee, battaglie popolari è la discriminante che stabilisce chi lotta davvero e chi non fa un cazzo; b) solo chi può mostrare un cartellino di partecipazione vidimato può criticare queste lotte; c) e poiché in genere durante le lotte sono sempre i soliti pochi che interpretano… Mmmmh, già sentita questa.

Il buon Malatesta scriveva nello stesso articolo: «la rivoluzione non si fa in quattro gatti… non si fa che quando il popolo scende in piazza. E se noi vogliamo farla bisogna che attiriamo a noi la folla, quanto più folla è possibile». Va da sé che — ammettendo l’effettiva esistenza di questa astrazione dalle centomila zampe — il popolo non ha affatto bisogno degli anarchici, che gli sono del tutto indifferenti. Vive, soffre, gioisce, obbedisce, si rivolta e muore benissimo senza di loro. Sono gli anarchici ad aver bisogno del popolo, a dover attirare «quanto più folla possibile» se vogliono fare la rivoluzione. E se questa folla si mostra insensibile alle idee anarchiche, oggi assai più che nel 1894, come fare? Non c’è verso, se si vuole uscire di corsa dalla routine delle iniziative per i soliti intimi non rimane che cambiare queste idee e i conseguenti metodi, diventando più tolleranti (ecco perché sbandierare il pedigree accademico di chi si invita a parlare nelle proprie iniziative è una precisa scelta, non un errore di poco conto. Come potrebbe la folla essere attirata dalla parola di uno sconosciuto autodidatta?).

Il ragionamento di Malatesta aveva una sua logica: poiché una rivoluzione non può essere fatta dai quattro gatti anarchici, questi devono necessariamente unirsi a cani, porci e fauna di varia specie al fine di fare minaccioso branco contro il comune padrone. Tuttavia c’è qualche ostacolo da superare. Per lo più solo i gatti sono indipendenti, gli altri animali tendono a seguire i loro rappresentanti. Per cui, se si vuole fare adunata, bisogna giocoforza prendere qualche accordo con animali più o meno politici che aspirano a diventare capo-branco. Ed essendo i gatti soltanto quattro mentre gli altri animali sono schiere, è ovvio che per comunicare sono i felini a dover apprendere ad abbaiare e grugnire, non gli altri a miagolare. Poco importa, pensava Malatesta, si tratta di concessioni momentanee del tutto trascurabili; «da cosa nasce cosa», e alla fine l’indipendenza felina tornata alla ribalta contagerà la fauna intera.

Altri anarchici, viceversa, sostenevano che la via delle alleanze, oltre ad essere discutibile dal punto di vista etico, non dà nemmeno i risultati sperati. L’alleanza è un affare politico i cui incassi vanno sempre al contraente più forte. Poveri quantitativamente, la sola forza “attrattiva” degli anarchici è la loro qualità, cioè quella loro indipendenza che li fa distinguere da tutti gli altri. Rinunciarvi in anticipo è un assurdo. Meglio perciò andare avanti per la propria strada, cercando di crescere e — perché no? — in qualche circostanza di incrociare nel loro cammino la folla, senza per questo adularla. Con la sua parte più umile si può ben cercare di discutere, ma gli animali politici, di qualsiasi razza siano, che se ne stiano alla larga. È pessimo esempio prima criticarli e poi colloquiarci amabilmente assieme. Per diffondere indipendenza bisogna praticarla. Per di più “alcuni anarchici” fanno dell’esperienza il faro dell’azione. Ma l’esperienza storica del movimento anarchico non ha forse puntualmente smentito l’ipotesi malatestiana? Ogni qualvolta gli anarchici si sono alleati con altre forze, alla fine sono stati traditi e tutta la loro opera si è rivelata di bassa manovalanza. Ma almeno ci hanno provato — si dirà. Nemmeno agli altri anarchici è andata meglio, essendosi ritrovati sempre soli contro tutti. Ma almeno sono rimasti se stessi — diciamo. Se ne deduce che, poiché l’esperienza in sé non dà ragione a nessuno — nemmeno quella vissuta — ma fornisce solo indicazioni di massima, restano i tentativi nelle diverse direzioni a seconda delle proprie convinzioni e propensioni.

La via di Malatesta è una via politica, nel senso che attraverso la più adatta strategia mira a raggiungere un risultato quantitativo. Come diceva un vecchio refrattario, «il politico ha orrore della solitudine» e per questo ama l’ambivalenza. I colori troppo netti, precisi, lo irritano perché forniscono poche opportunità di manovra. Meglio le sfumature, quelle che permettono in ogni istante di spaziare e confluire in più gradazioni.

Prendiamo l’uso di concetti di cui “alcuni anarchici” riconoscono l’ambivalenza, pur rivendicandone il ricorso. Notiamo di sfuggita che, se definire popolare la lotta in Val Susa ha valore descrittivo, lo stesso non si può dire per l’organizzazione di sedicenti iniziative popolari: qui l’aggettivo popolare non è una oggettiva constatazione a posteriori, ma una calda proposta a priori. A nostro avviso, il pericolo rappresentato da questa ambivalenza non è affatto una innocua incomprensione: è un’esatta comprensione, del tutto opposta alla nostra. La parola popolo è da sempre vessillo dei peggiori reazionari. Perché dovremmo usarla anche noi, pur nelle sue declinazioni? Solo perché nel secolo scorso se ne faceva un grande uso anche fra gli anarchici? O perché può avere anche un altro significato? Seguendo questa logica, potremmo rivendicare anche la virtù della politica. E dopo aver fatto due, facciamo tre. Perché non rispolverare il concetto di partito? Sì, insomma, partito nel senso di «essere di parte», com’era usato dallo stesso Malatesta. Così, di ambivalenza in ambivalenza, dove siamo arrivati? Ad un partito anarchico che pratica una politica popolare (non mancando di definire terrorismo la violenza anarchica come Libertad o di condannare il luddismo come Déjacque…). Chissà se è malignità rilevare l’opportunismo di una simile scelta che gioca intenzionalmente con l’ambiguità, nella speranza di ottenere… cosa? Fino al secolo scorso, si invitava a non usare la lingua di legno del potere se non si voleva riprodurlo. Solo che per attirare la massa bisogna farsi capire, e alla massa è stata insegnata soltanto questa dannata lingua. Per cui oggi ci viene detto che, laddove questa lingua è ambivalente, si può fare. Eccola qua, la «buona novella» apprezzata da “alcuni anarchici”.

Purtroppo quest’aria possibilista produce effetti diversi a seconda di chi la respira. Mentre chi non ha mai letto un testo rivoluzionario in vita sua è stato capace all’improvviso di erigere barricate (e di questo non ci si può che rallegrare), chi ne ha letti parecchi è stato capace all’improvviso di organizzare iniziative con politicanti e recuperatori di varia natura. Ci domandiamo se sia questa l’apertura verso l’ignoto descritta da «alcuni anarchici», i quali, per decantare la bellezza insita nel non andar troppo per il sottile quando si tratta di stringere rapporti, ricorrono a parole capaci di far scattare l’applauso: «fare le cose assieme a chi non è anarchico, battersi senza sapere in anticipo quali saranno i risultati, sperimentare idee e metodi in una lotta i cui tempi non li determiniamo solo noi, capire — fuori dai libri e dall’aria familiare delle iniziative che nascono e finiscono tra compagni – che avvedutezze ed errori hanno un loro peso specifico». Fatti i complimenti per lo stile, ci si perdoni la cafoneria di approfondire il contenuto. Chi sono questi altri, questi non anarchici nei cui occhi è tanto bello perdersi? Sono forse «sia il farmacista che l’operaio» che partecipano alle lotte popolari? Certo, se avessero scritto «sia il consigliere comunale che l’ambientalista di Stato», si sarebbe infranto il pathos eversivo. Eppure, è proprio quel che sta accadendo. Se ne sono accorti “alcuni anarchici”? Sarebbe sconcertante scoprire che è per un rigido schema mentale privo di esperienza vissuta, per ossequio nei confronti di un progetto astratto, che fino a qualche anno fa ci si teneva ben distanti da tutta questa brava gente. Si evitavano solo perché non li si conoscevano di persona? Con stizza ci viene fatto notare che l’incontro con chi non è anarchico cambia profondamente chi ha la determinazione di viverlo, sconvolge ogni previsione e schema. È «avventura, cioè qualcosa di ben diverso dal dir la nostra sul mondo».

E ce ne siamo accorti! Ci sono anarchici per cui l’avventura inizia quando si smette di dire la nostra sul mondo, per iniziare a dire la loro. Questo improvviso voltafaccia da cosa è ispirato? Dall’esperienza vissuta da conservare nel cuore con gratitudine o dal calcolo formulato dal realismo delle alleanze? Malatesta non aveva dubbi su quale fosse il vero imbroglio che sta dietro alle alleanze strategiche: azzeccare quelle più convenienti. Niente da fare: noi continuiamo ottusamente a ritenerle in sé un imbroglio e a pensare che l’avventura consista nel cercare di diffondere e mettere in pratica la nostra visione del mondo.

Ci rendiamo conto che questa nostra attenzione per il significato di quanto viene espresso è incompatibile con un certo possibilismo malatestiano (i cui ammiratori con una mano salutano il rigore e con l’altra accarezzano l’ambivalenza). Per togliercela dalla mente, ci viene chiesto: «Se gli anarchici del tempo avessero valutato la Comune di Parigi unicamente attraverso i suoi proclami, l’avrebbero difesa così energicamente? Una Comune elogiata dai federalisti e da Bakunin, ma anche da Marx e poi da Lenin…». Ottimo esempio. Partendo dal fatto che la Comune ha attirato gli elogi di tutti i sovversivi (ma per fortuna anche critiche), “alcuni anarchici” suggeriscono che una certa ambivalenza di significato in un’esperienza è inevitabile — quindi, inutile perderci tempo sopra. Solo che un conto è l’ambivalenza riscontrata a posteriori, quella che risulta dall’incontro/scontro delle forze in gioco. E un altro è l’ambivalenza premeditata, quella di chi sapendo che tanto prima o poi qualcosa andrà perso si presenta già ambivalente alla partenza.

Vero è che una esperienza storica non può essere valutata esclusivamente per i suoi proclami scritti. Ciò significa che è superfluo lasciare chiara traccia delle proprie idee? Se le cose affermate sono ininfluenti rispetto alle cose fatte, ne consegue che si può dire tutto e il contrario di tutto. Anarchia o democrazia, azione diretta o politica, barbari o cittadini, chi se ne frega? Si possono perfino sostenere tesi riformiste, se il fine è rivoluzionario (scusate, ma i disobbedienti ragionano in maniera poi tanto diversa?). La parola non va più apprezzata per il suo significato, ma solo per l’effetto ottenuto dalla sua performance e la buona intenzione di chi la emette. Le idee non sarebbero più parte di noi stessi, come la nostra pelle, ma indumenti che si possono tranquillamente variare a seconda dell’occasione. Se così fosse, ogni dibattito diventerebbe un inutile intralcio ad un fare coatto che non ha più bisogno di concedere spazio alla riflessione.

A proposito delle esperienze del passato, ci chiediamo su cosa oggi si potrebbe riflettere se gli anarchici del tempo non ne avessero tramandato la lezione storica. Avendo tante cose da fare, potevano magari limitarsi alle parole che evaporano nelle assemblee senza fare da contrappeso alle interessate interpretazioni di altri, o al più potevano narrare i fatti con fumetti deturnati o lettere dall’oltretomba. Quanto alla Comune, Marx e Lenin avrebbero di certo ringraziato; agli autoritari il nutriente piatto forte, agli anarchici il simpatico contorno. Anche qui, non si può fare a meno di intravedere i risvolti pratici di una simile ipotesi: si tralascia o diluisce ogni critica che divide gli animi in favore di una occasionale narrazione che li incanta e li unisce.

Per parte nostra, ciò di cui maggiormente avvertiamo la mancanza è l’autonomia: autonomia di pensiero, di azione, di strumenti. E a nulla vale andare con la mente ai tempi in cui si auspicavano tentativi di decentralizzare le lotte per sottrarle alla gestione dei soliti mestatori (Vicenza è dappertutto, si sarebbe sostenuto, preparando per altro così il terreno a un ben diverso tentativo di “svolta”). Se oggi si confrontassero gli aspetti qualitativi/quantitativi della “proposta anarchica” con quella delle altre forze sociali, l’esito sarebbe quasi vergognoso. Non siamo in grado di evocare una nostra visione della vita, del mondo, che sia affascinante. Non siamo in grado di formulare ed esercitare una nostra critica che sia originale e dirompente. E di questo siamo tutti responsabili, nessuno escluso. Se a ciò si aggiunge il più o meno inevitabile avvelenamento dei rapporti e l’incremento del controllo sociale e poliziesco, il quadro si fa desolante. Comprendiamo perciò la tentazione di «andare fra il popolo». Una boccata d’aria, certo, ma che rischia — senza le necessarie “precauzioni”— di far perdere gli ultimi residui di autonomia.

Temiamo che questo dibattito potrebbe tranquillamente proseguire all’infinito, senza giungere a capo di nulla. In fondo, come dimostra la citazione iniziale scelta da “alcuni anarchici”, è dalla fine dell’Ottocento che se ne discute. Il motivo della sua puntuale riproposizione è semplice. Qui non siamo di fronte a un problema tecnico risolvibile con una giusta soluzione, ma a una questione che può conoscere diverse interpretazioni anche molto contraddittorie fra loro. La preoccupazione di Malatesta mira ad intraprendere la strategia migliore per ottenere un primo successo quantitativo: attirare le masse. Se per arrivare a questo risultato bisogna sacrificare qualche principio, come si suol dire, pazienza. Meglio male accompagnati che soli. La nostra preoccupazione è esattamente quella opposta: prende in considerazione solo secondariamente l’aspetto numerico, a cui non intende sacrificare un bel nulla delle proprie idee che considera l’unico punto di forza. Se poi rischia di portare all’isolamento, pazienza. Meglio soli che male accompagnati.

Si crea una sorta di doppio cortocircuito. Da una parte si fa notare: come possiamo conquistare gli altri se non li frequentiamo? Dall’altra si fa notare: come possiamo conquistarli davvero, se pur di frequentarli ci travestiamo e rinunciamo a noi stessi? Forse non c’è che un modo per uscirne: aprendosi all’esterno senza perdere l’interno. Facile a dirsi, difficile da farsi, ne conveniamo. Ma tanto più difficile, a nostro avviso, se non ci si pone affatto il problema. Se il sasso nello stagno lanciato da MACHETE riuscirà a smuovere le sue acque, ben vengano gli schizzi limacciosi.

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