Riflessione su Genova 2001 e la manifestazione del 17 novembre

C’era gente che è partita pacifica e che s’è incazzata, chi ha sfogato la rabbia accumulata, chi si è scoperto nemico di questo mondo, chi ha visto criticare le merci e non ha avuto niente da ridire che l’inganno venisse smascherato. Chi era vestito di nero e chi aveva la maglia della squadra di calcio. C’erano i pacifisti, le tute bianche, i cobas, rifondazione, c’erano i trotzkisti, i curdi, i genovesi, gli italiani e gli stranieri. C’erano i militanti e i cani sciolti. E a un certo punto non c’era più nessuno, o meglio non c’era più nessuna distinzione tra la gente che stava in piazza, che attaccava, che si difendeva dalla polizia, dalle cariche, dai lacrimogeni, dai manganelli, dalle pallottole. C’era la piazza, e i suoi nemici stipendiati per difendere gli otto stronzi che personificano l’oppressione che quotidianamente ci opprime, tutti, e che si chiama Capitale.

Tutto questo in un attimo, in una giornata, che ha spento le sue passioni di rivolta poco dopo le cinque in piazza Alimonda. Poi la rabbia, l’impotenza, la paura, il desiderio di vendetta e quello di fuga. Che facevano pulsare le tempie, tremare le gambe, che stringevano la gola. Per un attimo il silenzio, attonito. Poi brusio è salito di nuovo, è montato fino a ritornare urlo, ma la musica era cambiata. C’erano i pacifisti che dicevano agli sbirri di non prendersela con loro, che era facile capire chi prendere, erano vestiti di nero ed erano fuori dal movimento, chi difendeva i contenuti politici della propria piazza perché c‘era scritto, chi faceva cordoni che aggredivano violentemente chiunque avesse l’ardire anche solo di tenersi il casco in testa, chi cercava di linciare chiunque si avvicinasse con fare minaccioso ad una vetrina, anche se i “malintenzionati” (che in quel caso più che altro erano dei malcapitati) erano in quattro e avevano a malapena 18 anni mentre loro erano tanti, c‘era chi cercava i cattivi per salvare i buoni, nei quali, ovviamente si sentiva incluso, c’erano gli infiltrati e c’era il complotto. Poi c’erano anche gli sbirri che menavano, caricavano, sparavano, facevano quello che gli avevano ordinato di fare, e cercavano di farlo bene. C’era un ragazzo con la testa sfasciata da una pallottola schiacciato sull’asfalto che da ribelle sarebbe presto diventato un martire. Non che questo non fosse cominciato da subito, dalle prime ore di quel venerdì che aveva preso una deriva imprevista e imprevedibile. Ma erano episodi coperti dal rumore di una piazza che gridava all’unisono. Ma a un certo punto le voci si sono rotte, non solo per il pianto, e quella solidarietà che nessuno aveva deciso ma che era stata praticata si è spezzata. Le cose che già da subito, immediatamente dopo quel venerdì, il venerdì sera stesso, e poi nei giorni successivi sono state dette e fatte pesano come macigni su un movimento che ha saputo rimanere unito di fronte alle cariche della polizia per poi spaccarsi in mille pezzi, dall’interno. Come dimenticare le accuse, la caccia alle streghe, la desolidarizzazione rispetto a pratiche che possono non essere condivise ma vanno rispettate e difese come qualunque altra. Come dimenticare la gente che ci si affrettava a lasciare indietro i non affini, per mettersi il culo al riparo, per lasciare un pasto succulento ai lupi in divisa, per placare una fame che li minacciava. Come dimenticare quanto detto sul Carlo punkabbestia, non riconosciuto da nessuno, scaricato pubblicamente e sui giornali, il Carlo che ha pagato il suo essere scroccone e tossico con la vita e che paga tutt’oggi il ruolo non richiesto di martire di un movimento che non lo riconosce perché disconosce i ribelli. Come dimenticare la definizione di “utili idioti” con cui si è voluto etichettare un modo di stare in piazza che non è imputabile a pochi ma ascrivibile a molti. Come dimenticare parole pesanti, che nessuno si è mai rimangiato. Ogni volta che in questi anni mi sono ritrovata a parlare di quanto successo in quei giorni (e mi è successo spesso) quello che emergeva era il congelamento delle opinioni che all’epoca si erano espresse e formate rispetto alla lettura da dare agli eventi. C’era chi parlava di rivolta, chi di repressione, chi parlava di fascisti vestiti da black block e d’infiltrati, chi ce l’aveva con le tute bianche e chi le difendeva. C’era sempre un gran baccano e un gran polverone. Poi è arrivata la magistratura che ha scombinato tutti i giochi, perché la magistratura non dimentica e non perdona: 25 imputati, non ascrivibili a un’unica area politica, ma provenienti da ogni parte. Degli imputati scomodi per il “movimento”, che facevano cadere la divisioni buoni e cattivi che si era voluto montare. E che testimoniavano con la loro esistenza quello che a Genova era successo e che molti si erano affrettati a dimenticare. Non erano black block, non erano tedeschi, non erano brutti e cattivi, non erano utili idioti né vestivano la divisa del fascista o dell’infiltrato, non erano anarchici, teppisti, hooligans, esaltati. Erano persone diverse, compagni, che con diverse pratiche e motivazioni si erano tutti ritrovati d’accordo nell’essere a Genova a manifestare il loro odio per questo sistema. Persone che il sistema doveva punire per tutti quegli altri che gli erano sfuggiti e ai quali non poteva perdonare la terribile bestemmia della critica collettiva alla merce e di una condivisione collettiva ritrovata e praticata al di là di ogni specifica appartenenza, di ogni calcolo politico, fuori da ogni parrocchia, per le strade. Allora la voce della piazza ha virato un’altra volta ritrovandosi unita nella denuncia di un impianto processuale che non può e non vuole perdonare quanto successo in quei giorni, che vuole pene esemplari e punizioni che suonano come una minaccia, perché non succeda mai più, perché nessuno possa pensare che quanto successo a Genova possa essere riproducibile., se non mettendo in conto conseguenze pesantissime. Sono in molti a dire che a Genova c’era un piano preordinato che doveva spaccare e annichilire un movimento che stava diventando troppo scomodo, pericoloso. Senza entrare nel merito, vale la pena constatare che se a Genova il movimento si è spaccato non è stato principalmente per la repressione della polizia ma per la desolidarizzazione che c’è stata, tra tutti, per il gioco alla delazione che come marionette nelle mani degli sbirri tutti si sono affrettati a giocare. Se i 25 imputati non fossero così diversi tra loro nell’appartenenza politica, questo gioco sarebbe durato in modo più esplicito ancora oggi, e probabilmente le persone, molte persone, considererebbero le richieste di condanna come la giusta punizione di che ha rotto il giocattolo della contestazione pacifica, concordata e simbolica ed è tutto sommato responsabile delle tante teste spaccate, perché ne ha dato il pretesto. Il fatto che tra gli imputati ci fosse di tutto, disobbedienti, cobas, gente comune caduta per caso, per il solo fatto di trovarsi in piazza, ha messo le diverse realtà politiche di fronte all’evidenza dei fatti e le ha costrette a difendere tutti e a non abbandonare nessuno. E neanche questo, che adesso sembra a tutti un dovere, neanche questo è stato da subito scontato, è stata una conquista, il risultato di un lavoro il cui merito va principalmente al supporto legale. Il 17 novembre è stata chiamata a Genova una manifestazione nazionale in solidarietà ai 25 imputati, per i quali fra poco verrà pronunciata la condanna. Indetta da “quelli di via Tolemaide” (e allora è scontato chiedersi se tutti gli altri ne siano automaticamente esclusi), è riuscita a trasformarsi in una chiamata al di là di identità e appartenenza di nuovo grazie all’appello in cui il supporto legale chiamava a Genova, ad ottenere che tutti scendano in piazza, ciascuno coi propri contenuti in solidarietà a chi era inquisito in un processo che era il caso di ricordare riguardava tutti. Quella chiamata è riuscita a convincere tutti a mediare su posizioni che in questi anni sostanzialmente non sono mai cambiate perché non sono mai state messe in discussione, posizioni che sono il frutto di una lettura politica di quanto è successo che continua a distinguere tra buoni e cattivi, tra i neri e gli altri, tra i violenti e i pacifici, tra gli utili idioti e i coscienziosi. Mi auguro che la manifestazione del 17 serva agli imputati, che riesca a virare i rapporti di forza, a mitigare le sentenze che ormai sono vicine. Ma la piazza che scenderà per strada a Genova sarà una piazza ancora spaccata, una piazza che in questi sei anni non è stata capace o non ha voluto, per incapacità o per calcolo politico, ricucire o costruire quella solidarietà che sola potrebbe darle la forza di chiedere e ottenere qualcosa, quella solidarietà che, pur nelle differenze, sostiene la lotta di chi crede che questo mondo vada cambiato in maniera radicale, e la sostiene in maniera forte, unitaria e soprattutto incondizionata, a Genova come altrove. Questo non accadrà, scenderemo tutti in piazza come atomi che si sopportano ma che tutto sommato si guardano di traverso, e saremo in tanti per rimanere soli alla prossima occasione, nelle lotte quotidiane, di fronte alla repressione quotidiana che se oggi condanna i rivoltosi, domani potrebbe perseguire chiunque pensi che questo mondo vada cambiato, chiunque si dimentichi, anche solo per un attimo, che l’unico comportamento ammesso è quello della sottomissione. Domani come ieri.Genova, 7 novembre 2007A."

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2 risposte a Riflessione su Genova 2001 e la manifestazione del 17 novembre

  1. compagnero scrive:

    care compagne e compagni io vi voglio dire solo una cosa…tutta la nostra rabbia deve essere trasformata in resistenza…continuiamo ad opporci allo stato fascista italiano…combattiamolo…..ANARCHIA REGNI!!!

  2. Paolo Minuti scrive:

    C’è qualcosa di buono…da approfondire almeno per me che sono esterno a tutto e tutti i movimenti ma che il 17 a Genova ci sarò. Poi è scritto discretamente bene…e non guasta saluti

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